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Onere della prova e false fatture: la Suprema corte detta le regole di riparto

Grava sul contribuente la prova contraria in caso di dimostrazione, da parte dell’Agenzia delle entrate, dell’utilizzo doloso di fatture soggettivamente false o di conoscibilità della frode

ROMA – Se l’Amministrazione finanziaria dimostra, anche in via presuntiva, che il contribuente era consapevole, o avrebbe dovuto esserlo secondo la diligenza qualificata, che le fatture ricevute si inserivano in un contesto di evasione d’imposta, grava sul contribuente la prova contraria. In particolare, il contribuente deve dimostrare di aver adoperato la massima diligenza esigibile da un operatore accorto, al fine di non essere coinvolto in un’operazione evasiva.

Questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 24735 dell’8 settembre 2025.

Il fatto
La vicenda giudiziaria ha preso il via dalla notifica di un atto di accertamento, da parte dell’Agenzia delle entrate, nei confronti di una Srl, mediante il quale venivano recuperati a tassazione ai fini delle imposte dirette e dell’Iva alcuni costi che l’Agenzia valutava relativi ad operazioni inesistenti, sia oggettivamente che soggettivamente.

Le fatture oggetto di contestazione risultavano emesse da altre società che, alla data di emissione, risultavano cessate, o, comunque, non avevano dichiarato alcun ricavo con riferimento all’anno d’imposta nel corso del quale le fatture erano state emesse.

Alla società destinataria dell’accertamento era stata richiesta dall’Agenzia delle entrate l’esibizione dei contratti relativi alle prestazioni comunque documentate nelle fatture. La richiesta era rimasta, tuttavia, priva di riscontro.

A seguito del ricorso presentato dalla società, Commissione tributaria provinciale di Roma ha annullato la pretesa fiscale in tema di Ires ed Irap, mentre ha ritenuto fondati i rilievi ai fini Iva.

In secondo grado, la Commissione tributaria regionale ha respinto l’appello della stessa società, osservando che l’Amministrazione finanziaria aveva fornito adeguata dimostrazione in merito al fatto che le fatture esibite dalla società a giustificazione dei costi da essa sostenuti provenivano da soggetti che dovevano essere considerati inesistenti dal punto di vista commerciale.

A fronte di tale circostanza, la società non aveva fornito, né in primo, né in secondo grado, documentazione inerente ai contratti documentati nelle fatture stesse.

Non erano stati consegnati neanche eventuali preventivi o, comunque, corrispondenza intercorsa tra le società tra le quali dovevano essere intervenute le operazioni fatturate.

Nel corso del giudizio è, inoltre, emerso che le fatture riportavano una descrizione alquanto generica in merito all’operazione cui i documenti fiscali si riferivano.

Successivamente, avverso la sentenza del giudice di seconde cure, la società ha presentato ricorso per revocazione ai sensi dell’articolo 395 n. 4 del Codice di procedura civile, ritenendo che la Ctr avesse deciso sulla base dell’errato presupposto della mancata produzione di documentazione dalla quale risultava la buona fede delle società stessa.

Si trattava, in particolare di una lettera con la quale veniva dato un incarico ad un terzo al fine di selezionare le imprese con le quali la società contribuente avrebbe concluso le successive operazioni.

L’istanza di revocazione è stata accolta.

Infine, l’Amministrazione finanziaria ha presentato ricorso per Cassazione, sostenendo che la documentazione prodotta dalla società nell’ambito del giudizio di merito fosse stata correttamente valutata dai giudici tributari.

La pronuncia della Cassazione
Nel corso del giudizio di legittimità, anche alla luce dell’orientamento dei giudici europei, è stato rilevato che la buona fede del contribuente non è sufficiente a fondare il diritto a detrarre l’Iva. Più nel dettaglio, con la pronuncia in esame, è stato affermato che questo diritto deve essere negato “….qualora risulti che l’operatore, usando l’ordinaria diligenza richiesta per la sua attività, avrebbe potuto saper di partecipare ad una frode….”.

In motivazione i giudici hanno richiamato la propria precedente ordinanza n. 15369/2020, mediante la quale si era affermato che “In tema di Iva, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attiene ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, incombe sulla stessa l’onere di provare la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente.

Nel momento in cui l’Amministrazione assolve a tale onere istruttorio, è il contribuente a dover fornire la prova contraria, ovvero la prova di aver adoperato la massima diligenza al fine di non essere coinvolto in un’operazione che determina evasione di imposta.

Preso atto che la società non aveva ottemperato all’onere della prova a suo carico, è stato accolto il ricorso dell’ufficio, con conseguente condanna della società al pagamento delle spese legali.

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