Lo smart working divide gli italiani

Roma, 24 aprile 2021 – Lo smart working divide gli italiani, condizionati dalle modalità con cui è
stata vissuta l’esperienza e, soprattutto, dal contesto familiare e domestico in cui si è svolta (7,3
milioni ad aprile 2021). Il bilancio è positivo sul fronte dell’aumentata possibilità di conciliare i tempi
di vita e di lavoro ma, insieme, emergono criticità che possono avere effetti anche sul clima aziendale
e sulle relazioni di lavoro, fino ad arrivare alla disaffezione. È quanto emerge dal capitolo “Smart
working, una rivoluzione nel lavoro degli italiani”, contenuto nel Rapporto “Gli italiani e il lavoro
dopo la grande emergenza” che sarà presentato in occasione del Festival del Lavoro, organizzato
dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro e dalla sua Fondazione Studi il 28 e
29 aprile 2021 (tutti i dettagli sulla manifestazione si trovano sul sito www.festivaldellavoro.it). Il
16,7% dei lavoratori intervistati guarda allo smart working come un punto di non ritorno della propria
vita professionale; oltre il 10,7% cercherebbe un qualsiasi altro lavoro pur di svolgerlo da casa. Il
43,5% si adatterebbe al ritorno in ufficio, ma 4 su 10 sarebbero contenti di tornare a lavorare tutti i
giorni in presenza. L’esperienza dell’ultimo anno è stata, infatti, vissuta in modo molto diverso da
giovani e adulti, da lavoratori con figli e senza. In termini relazionali e di carriera gli uomini sembrano
aver patito maggiormente il lavoro da casa (52,4% contro 45,7% delle donne), guadagnando però in
produttività e concentrazione. Viceversa, le donne hanno sofferto l’allungamento dei tempi di lavoro
(57% contro il 50,5% degli uomini) e l’inadeguatezza degli spazi casalinghi (42,1% contro 37,9%),
evidenziando un maggior rischio di disaffezione verso il lavoro (44,3% rispetto al 37% dei colleghi).
Ma se lo smart working ha permesso 6 volte su 10 di conciliare meglio professione e vita privata, non
è stato così per chi aveva maggiori carichi familiari. In primis le coppie, il cui work-life balance è
peggiorato per il 43% del campione. Ma l’home working ha avuto anche ricadute pratiche, in termini
di spesa e disturbi fisici legati a postazioni domestiche inadeguate. Il 71,1% dichiara di aver diminuito
le spese per spostamenti, vitto e vestiario, investendo in consumi legati al tempo libero nel 54,7% dei
casi, ma il 48,3% paga il conto per l’utilizzo di sedie e scrivanie improvvisate e il 39,6% lamenta
l’inadeguatezza degli spazi e delle infrastrutture, come i collegamenti di rete. L’indagine, in sostanza,
conferma, da una parte, un maggiore ricorso al lavoro agile tra i lavoratori più qualificati e le grandi
aziende (terziario, servizi alle imprese, credito e assicurazioni) e, dall’altra, una resistenza legata ad
una cultura organizzativa del lavoro orientata ancora su modelli tradizionali. Al centro i lavoratori
sotto i 35 anni, per i quali non si può più tornare indietro. «La varietà delle casistiche riportate
all’interno del Rapporto – afferma Rosario De Luca, Presidente della Fondazione Studi Consulenti
del Lavoro – evidenzia la necessità di ripensare alla regolazione del lavoro subordinato,
auspicabilmente lasciando alla contrattazione collettiva il compito di rintracciare le migliori soluzioni
per contemperare le richieste di imprese e lavoratori. Sarà interessante confrontarsi anche su questo
tema con il mondo della politica, delle imprese e delle parti sociali durante il Festival del Lavoro».

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