Operazione societaria antieconomica, legittima la ripresa a tassazione

sospetti gli acquisti di ville storiche soggette a tutela del ministero dei Beni e delle attività culturali, effettuati dalla società che poi ha estromesso gli immobili allo scopo di arricchire i soci

ROMA – Sono indeducibili dal reddito d’impresa le spese sostenute dalla società che, costituita al solo scopo di amministrare il patrimonio personale dei soci, ha acquistato un unico immobile, finanziandone la riqualificazione e ristrutturazione al solo fine di consentirne il mero godimento dei soci, senza svolgere alcuna attività d’impresa. Lo ha affermato la Cassazione, nell’ordinanza n. 19332 del 15 giugno 2022. A seguito di verifica fiscale e dalla documentazione contabile esibita a seguito di invito, l’Ufficio ha emesso accertamenti ai fini Irpef e Irap per l’anno d’imposta 2006 nei confronti dei quattro soci e della società immobiliare, recuperando i costi ritenuti indebitamente dedotti dalla società, con effetti, per trasparenza, sul reddito dei soci in proporzione alle quote possedute ex articolo 5 Tuir.

In particolare, l’Ufficio ha rilevato che la Sas, il cui oggetto sociale risultava “l’acquisto, la vendita, la permuta, la gestione, l’affitto ed il subaffitto, il comodato, l’appalto e l’amministrazione di beni immobili, terreni e fabbricati…”, di fatto, nella sua breve esistenza (13/6/2005 – 19/12/2007), il 1° agosto 2005 aveva acquistato un unico complesso immobiliare, ricompreso fra le ville storiche e risalente al secolo XV e ampliato nei secoli XVII-XVIII, con annesso porticato, adiacenze, giardino e vasto parco, dichiarato di interesse storico-artistico e soggetto alla tutela del ministero per i Beni e le Attività culturali, ne aveva finanziato le opere di riqualificazione e aveva provveduto alle operazioni e alle spese necessarie perché fosse fruibile dai soci, senza tuttavia svolgere alcuna effettiva attività di impresa. Successivamente la società, in sede di trasformazione da sas a società semplice, ha estromesso l’immobile dall’ambito commerciale (bene merce, dunque destinato a produrre ricavi, inserito in bilancio tra le rimanenze ma sempre destinato a uso personale dei soci), lo ha riportato nella sfera personale dei soci registrando un cospicuo ricavo di vendita non commisurato al valore di mercato di immobili dello stesso pregio. Avendo, quindi, ritenuto che l’attività svolta in tal modo presentava caratteristiche di antieconomicità e vista la sproporzione tra i costi sostenuti e i ricavi inesistenti, l’ufficio ha considerato indeducibili i costi dedotti, contestando alla società di essersi costituita con il solo scopo di amministrare il patrimonio personale dei soci al fine di beneficiare, mediante un uso improprio dello strumento societario, delle norme più favorevoli (per es. deduzioni) dettate per gli stessi enti giuridici.

La Commissione provinciale ha accolto i ricorsi, limitandosi a ritenere sussistente la violazione dell’articolo 12, comma 7, legge n. 212/2000, poiché i recuperi a tassazione recati dagli avvisi di accertamento, essendo diversi da quelli esposti nel pvc non erano conosciuti dai contribuenti e non avevano costituito oggetto di contraddittorio. Di diverso avviso la Commissione regionale che, in riforma della sentenza di primo grado, ha accolto l’appello dell’ufficio, ritenendo invece legittimi gli avvisi. In particolare, il giudice di secondo grado ha rigettato l’eccezione di illegittimità degli stessi per violazione del contraddittorio e per mancanza di motivazione e ha escluso la natura imprenditoriale dell’operazione che, doveva complessivamente valutarsi nei termini di un mero acquisto di immobile assegnato ai soci.

I contribuenti hanno proposto ricorso in Cassazione, censurando la sentenza impugnata, tra l’altro, per violazione e falsa applicazione di legge:
a) nella parte in cui ha escluso il vizio dell’atto impositivo, nonostante la mancata previa redazione del processo verbale di constatazione
b) nella parte in cui ha ritenuto giuridicamente impossibile qualificare come commerciali i cosiddetti atti preparatori di impresa e ha negato l’inerenza dei relativi costi in ragione del successivo mancato esercizio
e, inoltre, per omessa pronuncia su tutte le domande dei contribuenti, ritenendo sufficiente il rilievo dell’Ufficio in ordine al il mancato esercizio di una successiva attività imprenditoriale.

La Corte ha rigettato integralmente il ricorso e ha interpretato gli articoli 33, Dpr n. 600/1973 e 12, comma 7, legge n. 212/2000 nel senso che «l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto, purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi ‘armonizzati’; mentre, per quelli ‘non armonizzati’, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito» (ordinanza n. 13332/2022).

Osservazioni
I giudici di legittimità hanno richiamato il proprio orientamento consolidato secondo il quale, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, non sussiste per l’amministrazione finanziaria alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale in relazione agli accertamenti “a tavolino” di imposte diverse dall’Iva, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale (sezioni unite n. 24823/2015; Cassazione, n. 6219/2018 e n. 20036/2018).

Con riferimento alla censura della in violazione dell’articolo 109 Tuir, i giudici di piazza Cavour hanno rilevato che il motivo di ricorso non coglieva la ratio decidendi della sentenza impugnata. La Ctr, infatti, aveva espressamente condiviso le valutazioni dell’Ufficio sulla mancanza di inerenza dei costi dedotti all’attività d’impresa e, facendo proprie dette considerazioni aveva espressamente valutato nel merito l’operazione immobiliare oggetto del contendere, evidenziando, in fatto, che la medesima si caratterizzava quale un’operazione di acquisto di un immobile al fine di assegnarlo, successivamente ristrutturato, ai soci, ed escludendone, per caratteristiche e per finalità, la natura imprenditoriale.
Al riguardo, la Cassazione ha costantemente affermato la stretta correlazione che deve sussistere tra la deducibilità dei costi e il principio dell’inerenza, quale espressione della necessità di riferire i primi all’esercizio dell’impresa. «Il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava, dunque, dalla nozione di reddito, esprimendo la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa» (Cassazione, n. 31930/2021). L’applicazione di tale principio consente di tracciare la linea di confine tra gli oneri inerenti e quelli non inerenti e, quindi, di far rientrare nella prima categoria ogni onere sostenuto con riferimento all’attività di impresa, ovvero all’attività da cui derivano i ricavi e i proventi che concorrono a formare l’imponibile, secondo un giudizio che prescinde da valutazioni di tipo utilitaristico.

Un’operazione economica isolata non diretta al mercato, compiuta da una società commerciale, quand’anche l’atto costitutivo o lo statuto sociale prevedano che il sodalizio possa compiere operazioni di acquisto, ristrutturazione, vendita e locazione d’immobili, di per sé sola non può valere a dare consistenza ad un’attività imprenditoriale capace di giustificare l’inerenza della stessa operazione all’attività svolta (Cassazione, n. 10532/2006, n. 7344/2011, n. 4157/2013, n. 1859/2014).

La previsione statutaria relativa alle tipiche attività immobiliari, infatti, riveste un valore meramente indiziario dell’inerenza dei costi all’effettivo esercizio dell’impresa, salvo che la società dimostri o che l’operazione, apparentemente singola, non sia isolata e che sia inserita in una specifica attività imprenditoriale oppure che cessa si inserisca in una attività immobiliare vera e propria, così che in entrambi i casi, sia destinata, almeno in prospettiva, a generare ricavi in proprio favore al fine di provare l’intento di finalizzare l’acquisto o la ristrutturazione dell’immobile all’espletamento dell’attività economica realizzata (Cassazione, n. 3746/2015).

Infine, neppure è stata accolta la censura della sentenza per omessa motivazione dell’avviso di accertamento, avendola la Ctr individuata nella violazione dell’articolo 109 Tuir e avendo argomentato adeguatamente sulle ragioni che portavano a ritenere l’operazione non inerente all’impresa. Del resto costituisce principio consolidato di legittimità che «non ricorre il vizio di omessa pronuncia su punto decisivo qualora la soluzione negativa di una richiesta di parte sia implicita nella costruzione logico-giuridica della sentenza, incompatibile con la detta domanda, ovvero quando a decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, anche se manchi una specifica argomentazione in proposito.» (Cassazione, n. 7662/2020).

Nella fattispecie, la Cassazione ha concluso che l’esigenza di adeguata motivazione è stata soddisfatta poiché il convincimento raggiunto dalla Commissione regionale è risultato da un esame logico e coerente, non già di tutte le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, bensì solo di quelle ritenute dal giudice di merito, di per sé sole, idonee e sufficienti a giustificarlo.

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