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Il riscatto del popolo unito che non sarà mai sconfitto

Torna in auge il noto canto cileno voluto da Salvador Allende

ROMA – El pueblo unido jamàs serà vencido (Il popolo unito non sarà mai sconfitto) torna in auge in relazione ai gravi accadimenti a cui sono costretti i popoli del terzo millennio avanzato.

Il brano  è un inno iconico che  venne  diffuso in tutto il mondo dagli Inti Illimani. Il suo ritmo coinvolgente  esprimeva la fierezza del popolo cileno mobilitato da una grande speranza di liberazione dalle catene della povertà, del sottosviluppo e dello sfruttamento coloniale delle risorse del paese. La speranza di liberazione ebbe all’inizio degli anni ’70 del ed aveva portato alla sconfitta dell’oligarchia ed alla elezione di Salvador Allende a  Presidente della Repubblica cilena.

“Questo risultato  – spiega Domenico Gallo magistrato e già presidente della Corte di Cassazione –  fu il frutto dell’azione di base di partiti e sindacati, ma anche di una straordinaria mobilitazione di intellettuali, artisti, poeti e cantanti. In questo clima di fermento culturale era maturata l’esperienza di Violeta Parra, col suo canzoniere di protesta e denuncia per le ingiustizie sociali. Una protesta condita da un amore intenso per la vita, espresso dai versi della sua canzone più famosa: Gracias a la vida, que me ha dado tanto. Pablo Neruda, nella sua autobiografia, Confesso che ho vissuto, racconta la sua campagna elettorale come candidato comunista alla carica di Presidente della Repubblica, felicissimo di rinunciare a favore del candidato unico di Unidad Popular, Salvador Allende. Accettata la candidatura, Neruda cominciò a girare il Cile, faceva campagna elettorale leggendo le sue poesie: «Abitanti dei sobborghi di Santiago, minatori di Coquimbo, uomini del rame e del deserto, contadine che mi aspettavano per ore con i loro piccoli in braccio, gente che viveva in stato di abbandono dal Rio Bìo Bìo fin oltre lo stretto di Magellano, a tutti parlavo, a tutti leggevo le mie poesie sotto la pioggia, nel fango di strade e sentieri, sotto il vento australe che fa tremare la gente».

D’accordo col suo partito, Neruda rinunciò alla sua candidatura in favore di Allende e i due candidati fecero l’annuncio in un comizio comune in un parco affollatissimo, strabordante di entusiasmo.

Ho rievocato queste vicende di fronte all’emozione che mi ha suscitato la drammatica crisi in cui è precipitato di nuovo il Cile: di nuovo, come nel 1973, i blindati dell’esercito sono scesi in strada; di nuovo un presidente che assomiglia a Pinochet in sedicesimo ha decretato lo stato di emergenza e imposto il coprifuoco; di nuovo i Carabineros hanno fatto ricorso a forme estreme di violenza nei confronti dei giovani che protestavano provocando, allo stato, 18 morti. La protesta è iniziata la scorsa settimana su iniziativa degli studenti delle scuole superiori che hanno invaso la metropolitana, saltando i tornelli per contestare il rincaro dei biglietti. Ma evidentemente è stata solo la miccia che ha fatto detonare una rabbia sociale che covava da molto tempo, che è esplosa in forme vandaliche con l’incendio delle stazioni della metro e il saccheggio dei supermercati.

Alla base di questa rivolta popolare c’è la situazione di un’economia forte, in cui la stragrande maggioranza dei cittadini è esclusa dai benefici dello sviluppo, dove i servizi pubblici sono cari e inefficienti, dai trasporti alla sanità all’istruzione, i salari sono bassi e intenso lo sfruttamento sul lavoro. È la disuguaglianza prodotta dalla rigorosa applicazione (in Cile più che altrove) delle ricette dell’economia liberista che sta presentando il conto alla politica.

È nato un movimento popolare di lotta, ma il dramma di questo movimento è di non essere guidato dalla speranza dell’avvento di una nuova società, che animava la mobilitazione popolare del 1970. Per questo la rabbia degenera in vandalismo e distrugge quella stessa ricchezza che il popolo ha costruito. Per sfuggire al nichilismo che oscura la rivolta popolare, il Cile deve trovare le risorse politiche, morali e intellettuali, ripristinando lo spirito dell’esperienza di Allende. Deve ripristinare quel sentimento di gentilezza, di speranza e di amore per la vita, testimoniato dai suoi profeti come Neruda e Allende, riprendendo il canto di Violeta Parra: Gracias a la vida, que me ha dado tanto.” fonte: volerelaluna.it

 

Salvador Allende nasce nel 1908 a Santiago del Cile. Si avvicina alla politica durante gli anni del liceo: all’inizio studia i teorici del pensiero anarchico, poi il marxismo. Il suo impegno prosegue anche dopo gli studi in medicina, quando comincia a fare il medico, tanto che, nel 1933, è tra i fondatori del Partito Socialista del Cile. L’ascesa di Allende nella politica nazionale è veloce. Nel 1938 diventa ministro della Sanità e delle Politiche Sociali, carica che conserva fino al 1942 e con due differenti capi di governo. Nel 1952, Allende si candida per la prima volta alla carica di presidente della Repubblica con l’appoggio del Partito Socialista e del Partito Comunista, arrivando quarto su quattro candidati. Nel 1958 corre di nuovo per palazzo de La Moneda ma, pur avendo triplicato i voti rispetto alla tornata precedente, viene sconfitto dal candidato conservatore, Jorge Alessandri Rodríguez. Stessa cosa avviene alle presidenziali del 1964, quando a conquistare la carica di presidente è Eduardo Frei Montalva, esponente del Partito Democratico Cristiano del Cile.

Il suo sogno era quello di abbinare socialismo e democrazia. Medico, marxista convinto, Salvador Allende è ricordato per essere stato il presidente della Repubblica cilena democraticamente eletto e poi deposto, l’11 settembre del 1973, dal colpo di Stato militare guidato dal generale Augusto Pinochet, che subito dopo ha preso il potere instaurando una dittatura durata 17 anni. Allende è stato uno dei fondatori del Partito Socialista cileno e nel corso della sua carriera è stato ministro, senatore e presidente del Senato, prima di raggiungere la massima carica del Paese.

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