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Operazioni inesistenti per il Fisco, prova contraria al contribuente

Gli elementi presuntivi attestanti l’apparenza oggettiva dei movimenti possono fondare l’accertamento e devono essere complessivamente valutati dal giudice di merito

Una volta che l’Amministrazione finanziaria dimostri, anche mediante presunzioni semplici, l’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’Iva e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, non potendo tale onere ritenersi assolto con l’esibizione della fattura, ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, che vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia. Nel caso in esame, il giudice di merito, con motivazione del tutto astratta, svaluta il valore dei diversi elementi presuntivi offerti dall’Amministrazione, questo principio viene confermato con la pronuncia n. 3488 del 7 febbraio 2024, emessa dalla suprema Corte.

Il caso controverso
La controversia in commento origina dalla notifica di un avviso di accertamento, a fini Irpef, Irap e Iva, per l’anno di imposta 2003, con cui l’Agenzia recuperava a imposizione, nei confronti di un informatore scientifico, costi inerenti alla voce spese di pubblicità, determinati dall’acquisto di materiali e gadget per la pubblicizzazione dei prodotti farmaceutici, ritenuti relativi a operazioni oggettivamente inesistenti; ciò in base ad alcuni elementi fattuali che deponevano per la inoperatività delle società fornitrici.

I giudici romani della Corte tributaria di primo grado rigettavano il ricorso proposto dal contribuente. La Ctr del Lazio, invece, accoglieva l’appello formulato dalla parte privata, evidenziando, quanto ai costi per operazioni inesistenti, che l’ufficio, al di là degli elementi indicativi della inoperatività delle società fornitrici e della loro inidoneità a commercializzare prodotti privi di qualsiasi collegamento con l’attività descritta nell’oggetto sociale, nulla di concreto aveva dimostrato, in assenza di accertamenti sulle società fornitrici.
La sentenza veniva impugnata dall’Agenzia, proponendo tre motivi. In particolare, veniva prospettata la violazione, in primo luogo, del principio del riparto dell’onere di prova nel caso di operazioni oggettivamente inesistenti, avendo, peraltro, escluso – il giudice del gravame – che gli elementi indiziari proposti dalla parte pubblica potessero avere rilevanza ai fini dell’assolvimento dell’onere di prova sulla stessa gravante. È stata quindi avanzata la violazione dell’articolo 2697 del codice civile, norma sulla quale si basa la ripartizione dell’onere di prova, e delle previsioni normative tributarie che, più specificamente, dettano i principi in materia di prova presuntiva (articolo 39, comma 1, lettera d), Dpr n. 600/1973).

La decisione della Corte di cassazione
L’ordinanza in commento torna sul concetto di ripartizione dell’onere probatorio in tema di operazioni oggettivamente inesistenti, affermando, in prima battuta, che il motivo di ricorso proposto dalla parte pubblica “non implica una rivalutazione degli elementi meritali, bensì involge la non corretta sussunzione della fattispecie nell’ambito del paradigma astratto delle norme citate, concretantesi, in particolare, nell’avere ritenuto che essa non avesse assolto all’onere di prova su di essa gravante, nonostante la molteplicità di elementi indiziari, proposti a supporto della pretesa della natura oggettivamente inesistente delle operazioni di cui alle fatture passive, di cui, non correttamente, il giudice del gravame avrebbe svalutato o escluso la rilevanza”.
In secondo luogo, la Corte ritiene che, “poiché la fattura, di regola, costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’Iva e alla deducibilità dei costi, spetta all’Ufficio dimostrare il difetto delle condizioni per l’insorgenza di tale diritto. La dimostrazione può ben consistere in presunzioni semplici, poiché la prova presuntiva non è collocata su un piano gerarchicamente subordinato rispetto alle altre fonti di prova e costituisce una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento. Inoltre, gli stessi giudici evidenziano che nei casi in cui “l’Amministrazione finanziaria contesti l’inesistenza di operazioni assunte a presupposto della deducibilità dei relativi costi e di detraibilità della relativa imposta, (…) la stessa ha l’onere di provare che l’operazione documentata dalla fattura non è stata in realtà mai posta in essere, indicando gli elementi presuntivi o indiziari sui quali fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, strumenti che vengono di solito adoperati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia”.
Gli stessi giudici concludono affermando che “più in particolare, la dimostrazione a carico dell’amministrazione finanziaria è raggiunta qualora siano forniti validi elementi che, alla stregua dell’art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 600/1973, e dell’art. art. 54, comma 2, d.P.R. n. 633/1972, possono anche assumere la consistenza di attendibili indizi, per affermare che le fatture sono state emesse per operazioni fittizie, ovvero che dimostrino in modo certo e diretto la inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati ovvero la inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione”.

Osservazioni
La decisione in argomento torna ad affrontare il dibattuto tema della ripartizione dell’onere probatorio, riguardante liti aventi a oggetto l’inesistenza oggettiva o meno di operazioni commerciali che presentano elementi di anomalia.
Costituisce ormai principio indiscusso della giurisprudenza di legittimità quello a mente del quale “una volta che l’Amministrazione finanziaria dimostri, anche mediante presunzioni semplici, l’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, non potendo tale onere ritenersi assolto con l’esibizione della fattura, ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, in quanto essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia” (cfr Cassazione, pronunce nn. 28628/2021 e 27554/2018).

Come visto, nel caso concreto i giudici di legittimità cassano la sentenza di secondo grado pronunciata dai giudici regionali del Lazio, ritenendo la decisione viziata, in quanto con motivazione apodittica (“nulla di concreto è stato dimostrato”) e del tutto astratta (“perché non è stato eseguito un riscontro presso le società incriminate?”), aveva svalutato il valore pregnante e inferenziale dei diversi elementi presuntivi offerti dall’Amministrazione, che aveva evidenziato come:

  • le due società, che avevano emesso le fatture contestate, avevano quale oggetto sociale attività incompatibili con la fornitura di materiali di cancelleria
  • che una di esse era stata dichiarata fallita nel 2003
  • che entrambe le società, negli anni in questione, non avevano presentato la dichiarazione dei redditi (per cui i corrispettivi derivanti da tali operazioni non erano stati oggetto di tassazione)
  • che la modalità di pagamento indicata in fattura era, in tutti i casi, la rimessa diretta e che non era stata prodotta alcuna prova attinente al pagamento.

I giudici inoltre affermano che “trattasi di elementi che complessivamente considerati avrebbero potuto fondare l’asserita inesistenza delle operazioni e che la CTR avrebbe dovuto valutare ed eventualmente confutare con adeguata motivazione, per poi, ove tali elementi fossero stati ritenuti probanti l’assunto, dare ingresso alla prova contraria offerta dal contribuente”.
In definitiva, la Cassazione correttamente segnala che il giudice non può, quando esamina le argomentazioni delle parti o i fatti di prova, limitarsi a enunciare il giudizio nel quale consiste la loro valutazione, perché questo è il solo contenuto “statico” della complessa dichiarazione motivazionale, ma deve adoperarsi, tanto più in una fattispecie complessa, anche nella descrizione del processo cognitivo, attraverso il quale è passato dalla sua situazione di iniziale ignoranza dei fatti alla situazione finale costituita dal giudizio, che rappresenta il necessario contenuto “dinamico” della dichiarazione. In altri termini, proprio la necessità di esporre le ragioni del giudizio di prevalenza di una tesi sull’altra esclude che, sul punto, la motivazione possa essere integrata dagli ampi riferimenti, contenuti negli atti difensivi del controricorrente, agli atti di parte e ai documenti prodotti in causa, o al richiamo, meramente generico, della sentenza di primo grado, che non possono essere utilizzati al fine di riempire di contenuto le generiche affermazioni dei giudici e la cui indicazione evidenzia ancor di più il vizio denunciato.

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