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L’ esenzione Iva per le prestazioni socio-sanitarie svolte in convenzione

Roma – L’esenzione Iva per le prestazioni assistenziali non è applicabile se le stesse, sebbene erogate nei confronti di soggetti “svantaggiati”, lo siano da parte di un soggetto diverso da quelli contemplati dalla disposizione di cui all’articolo 10, n. 27-ter del Dpr n. 633/1972. Così si è espressa la Corte di cassazione, precisando i requisiti oggettivi e soggettivi dell’esenzione, con l’ordinanza n. 22324 depositata il 5 agosto 2021, nella quale si è escluso che possa rilevare in contrario lo svolgimento dell’attività sulla base di convenzione con l’Asl.

Tra le (tassative) ipotesi di esenzione Iva di cui all’articolo 10 del Dpr n. 633/1972 vi è, al n. 27-ter, quella relativa alle “prestazioni socio-sanitarie, di assistenza domiciliare o ambulatoriale, in comunità e simili, in favore degli anziani ed inabili adulti, di tossicodipendenti e di malati di AIDS, degli handicappati psicofisici, dei minori anche coinvolti in situazioni di disadattamento e di devianza, di persone migranti, senza fissa dimora, richiedenti asilo, di persone detenute, di donne vittime di tratta a scopo sessuale e lavorativo, rese da organismi di diritto pubblico, da istituzioni sanitarie riconosciute che erogano assistenza pubblica, previste dall’articolo 41 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, o da enti aventi finalità di assistenza sociale e da enti del Terzo settore di natura non commerciale”.
Tale voce, che attua l’articolo 132, n. 1, lettera g) della direttiva n. 2006/112/Ce (e, in precedenza, dell’articolo 13, parte A lettera della direttiva 77/388/Cee), era stata inizialmente aggiunta dal Dl n. 331/1993, per essere abrogata dal Dl n. 564/1994 e reinserita dal Dl n. 415/1995. Successivamente, come si ricostruisce anche nella pronuncia in commento, è stata modificata i) dalla legge n. 449/1997, che sostituì il “sia direttamente che in esecuzione di contratti di appalti, convenzioni e contratti in genere” che allora concludeva la disposizione con il solo “direttamente”, ii) dal Dlgs n. 460/1997, che aggiunse le Onlus (dal Dlgs n. 117/2017, “enti del Terzo settore di natura non commerciale”) all’elenco degli enti contemplati dall’esenzione, iii) dalla legge n. 28 del 1999, che soppresse l’avverbio “direttamente”, iv) infine, dalla legge n. 296/2006, che dal 2007 estende l’esenzione ai servizi resi in favore di migranti, senza fissa dimora, richiedenti asilo, detenuti e donne vittime di tratta a scopo sessuale e lavorativo.

Si tratta di un’agevolazione di natura soggettiva, nella quale l’individuazione dei soggetti che possono erogare le prestazioni in esenzione è rimessa agli Stati membri (“effettuate da organismi di diritto pubblico o da altri organismi riconosciuti come aventi carattere sociale dallo Stato membro interessato”: così la direttiva 77/388/Cee).

Gli enti che possono fruire dell’esenzione sono soltanto quelli contemplati e non anche altri, come ad esempio le cooperative sociali e i loro consorzi, per le quali tuttavia a decorrere dal 2017 è prevista un’aliquota ridotta al 5% senza la possibilità di optare per l’esenzione, anche se svolgono l’attività in esecuzione di contratti di appalto o in convenzione.

La fattispecie esaminata dalla Suprema Corte con l’ordinanza in commento riguarda una ditta individuale, titolare di una “comunità di convivenza” del tipo “comunità alloggio” (così come accertato in fatto dalla Ctr del Lazio), destinataria di tre avvisi di accertamento per gli anni 2005, 2006 e 2007.
L’Amministrazione finanziaria aveva disconosciuto i requisiti di esenzione dell’Iva e, mentre la Ctp aveva ritenuto non applicabile l’esenzione di cui al n. 18 (prestazioni sanitarie), ritenendo l’attività assimilabile a quella di una struttura alberghiera, la Ctr aveva considerato integrati i presupposti dell’esenzione illustrata nel precedente paragrafo.
In particolare, secondo la Ctr, nelle strutture erano svolte prestazioni socio-sanitarie consistenti nella riabilitazione e socializzazione di pazienti psichiatrici, inviati dall’Asl, in forza di convenzione, una volta concluso il ciclo terapeutico. Alla luce di tale rapporto, le prestazioni, seppur indirettamente, potevano ritenersi svolte da “organismi di diritto pubblico”, e quindi esenti dall’Iva.

Sul punto è dunque importante precisare che – come conferma da ultimo la Cassazione con ordinanza n. 22693/2021 – la nozione di organismo di diritto pubblico non può coincidere con quella, di origine comunitaria, oggi recepita dall’articolo 3, lettera d) del codice degli appalti (Dlgs n. 50/2016), ma è molto più ristretta; ciò si comprende facilmente se si considera che si tratta di deroghe all’imposizione, mentre ai fini degli appalti si tende ad ampliare quanto più possibile le garanzie partecipativa. Il non assoggettamento all’Iva richiede, congiuntamente, l’esercizio di attività da parte di un ente pubblico e l’esercizio di attività in veste di pubblica autorità (cfr. Cassazione nn. 5947/2015 e 12491/2019, quest’ultima richiamata in motivazione).

Il ricorso dell’Agenzia, accolto con rinvio alla Ctr, concerne la corretta interpretazione del n. 27-ter, ed in particolare del requisito soggettivo.
La Cassazione premette che non vi è censura sull’accertamento in fatto compiuto dalla Ctr, secondo cui la ditta svolge prestazioni socio-sanitarie in favore di soggetti svantaggiati e non costituisce un “organismo di diritto pubblico” (qualifica che, invece, è rivestita dall’Asl). Sebbene non può escludersi che la ditta possa costituire un “ente avente finalità di assistenza sociale” – sembra questo l’accertamento richiesto al giudice del rinvio –, la Corte esclude recisamente che l’attività possa fruire dell’esenzione perché svolta in convenzione con un soggetto, l’Asl, incluso nella norma di esenzione. Rispetto all’Asl, infatti, la ditta, impresa commerciale che opera in regime di diritto privato, e non è titolare di prerogative pubbliche, è a tutti gli effetti un terzo.

Richiamate le modifiche del n. 27-ter intervenute nel tempo, la Corte evidenzia che la costante del dato normativo è la compresenza di un presupposto oggettivo (la tipologia di prestazione) e di un doppio presupposto oggettivo, uno concernente il beneficiario della prestazione (anziani, inabili, tossicodipendenti eccetera) e l’altro l’esecutore della stessa.

Né a conclusioni diverse può condurre la soppressione dell’avverbio “direttamente”, avvenuta nel 1999.
La circolare n. 43/2004, osserva la Corte, ha riguardo al destinatario, e non a colui che eroga, le prestazioni: come si legge nel documento di prassi, “deve tuttavia convenirsi […] che il regime di esenzione possa estendersi  alle  prestazioni  ivi indicate, rese dagli enti e organismi individuati  dalla   stessa   disposizione   (comprese   le   ONLUS),  sia  se effettuate direttamente  –  cioè  dagli stessi enti o organismi nei confronti diretti dei  soggetti  “svantaggiati”  beneficiari  –  sia  se  effettuate  in esecuzione di   contratti  di  appalto,  convenzioni  o  contratti  in  genere stipulati con soggetti terzi”. In altri termini, la modifica del 1999 e la circolare si occupano della posizione del soggetto appaltante, non di quella del soggetto che opera in forza di appalto o convenzione.

Quindi,  secondo la Corte, per fruire dell’esenzione le prestazioni socio-sanitarie devono essere rese da taluno dei soggetti indicati dalla norma, senza possibilità di “avvalimento” del requisito soggettivo dell’Asl.

 

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